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Sylvia Plath, Camille Claudel, Virginia Woolf
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I Grandi dalla scrittura

Presentare una sezione grafologica caratterizzata da un titolo così generico richiede qualche precisazione. Innanzitutto chi sono i grandi: grandi scienziati, grandi artisti, grandi condottieri, caratterizzati veramente da grande ingegno o soltanto da una grande ambizione e grandi capacità di intrigo? Già questo primo interrogativo richiederebbe una lunga serie di considerazioni che esulano dallo scopo della sezione. In secondo luogo, ci si chiede se sia lecito partire dal presupposto, apparentemente ovvio, che una persona sia diventata famosa a causa delle eccezionali capacità che possedeva, che spingevano in senso finalistico in una data direzione. Grafologicamente questo non risulta sempre vero. Inoltre questa forma di riduzionismo psicologico a volte risulta troppo pedante e anche irritante nello sforzo di voler spiegare in dettaglio come e perché sia successo tutto, senza riuscire di fatto a spiegare neanche in minima parte l’altezza e la complessità delle situazioni a cui certi personaggi giungono. Lo psicologo americano J. Hillman ha riproposto recentemente il concetto di ‘codice dell’anima’, vale a dire l’idea “che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.” (Il codice dell’anima, Adelphi Ed., p.21) Ciò che siamo, in questa prospettiva, non è il frutto delle circostanze, dell’ambiente, del carattere che abbiamo ereditato, ma questi sono solo strumenti che sollecitano la percezione dell’unicità del nostro destino e contribuiscono a realizzarlo. In termini grafologici, la scrittura non spiega il nostro destino e spiega solo in parte la nostra storia, in quanto la personalità costituisce uno dei mezzi attraverso i quali il destino individuale si compie. In questo senso l’anima ci sceglie per vivere la sua vita, per fare quella determinata esperienza della realtà, attraverso un certo corpo e una certa personalità che sono in grado di reggere quella esperienza. Per questo un avventuriero che scopre un continente sconosciuto non può avere la stessa struttura di personalità che consente a un altro di passare anni ad affrescare una cappella: al di là di quello che può essere il potenziale intellettivo di entrambi, uno ha bisogno di audacia, irrequietezza e intraprendenza per muoversi in spazi quasi infiniti e l’altro di dominio totale delle sue energie per portare a termine un compito in condizioni quasi di immobilità fisica. Ma queste tendenze sono strumenti, non fini, in quanto la personalità non può spiegare se stessa, ma fa appello ad altro che resta al di fuori di sé: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi e, guarda caso, si ha proprio quella struttura di personalità che ci consente di vivere quelle, e solo quelle, determinate esperienze. Nel raccontare le personalità dei grandi ci limiteremo, pertanto, a prendere atto della struttura della psiche attraverso l’evidenziazione dei principali segni grafologici, e soprattutto di quelli che hanno ‘segnato’ in modo vistoso, per la loro presenza, o la loro assenza, o il loro squilibrio, l’individuo in esame. Ma mentre esaminiamo quello che l’individuo mostra di se stesso attraverso la sua struttura di personalità, non si può dimenticare ciò che non c’è e non ci potrà mai essere nella scrittura: l’anima che ha dato necessità e direzione a quella esistenza.

Sylvia Plath, Camille Claudel, Virginia Woolf

Il disagio femminile nella società patriarcale

Per molto tempo si è pensato che la meta dell’integrazione delle donne nel mondo del lavoro potesse essere raggiungibile semplicemente attraverso la rimozione degli ostacoli e dei divieti che sono stati frapposti in questo senso nel corso di secoli. Tuttavia, mentre da una parte è sempre più visibile la spinta che la donna subisce per conquistare la sua emancipazione e raggiungere a tutti i livelli un piano di parità con l’uomo, dall’altra si nota anche con altrettanta evidenza il permanere del tipico e tradizionale quadro di disagio psichico femminile, espresso come depressione, ansia, autosvalutazione, infelicità sessuale, diverso da quello maschile, connesso genericamente con la regolazione dell’aggressività e la sua integrazione in un contesto socialmente accettabile. Ciò che non manca di sorprendere è il fatto che anche la donna emancipata, cioè realizzata dal punto di vista sociale ed economico, esprime nei momenti di crisi il suo malessere in modo indipendente dal livello sociale o culturale raggiunto, ma unificato nell’appartenenza di genere.

Per analizzare alcune tipiche problematiche di disagio femminile ho scelto tre figure particolarmente significative: la scultrice Camille Claudel e le scrittrici Sylvia Plath e Virginia Woolf. Tre donne emancipate che, nonostante il loro enorme talento e le opportunità sociali estremamente favorevoli, tali da decretare per loro successo e riconoscimento culturale mentre erano in vita, non riuscirono a sfuggire a quella che abbiamo definito tipica sintomatologia di disagio femminile: ad un certo punto delle loro vite qualcosa interiormente si è spezzato, si sono sentite profondamente infelici e autolesioniste, secondo una tipica ed approvata modalità comportamentale che le ha rese sempre più dipendenti, bisognose di aiuto psicoterapeutico o di sostegno psichiatrico.

L’approccio teorico che seguiremo vuole mettere in luce l’esistenza di specifici problemi che determinano la situazione di disagio e le conseguenti difficoltà di integrazione sociale delle donne. Questa specificità così come appare attualmente, proviene non solo da fattori legati al ruolo, ma nasce da precise differenze di genere, tanto di natura biologica che psicologica. Il misconoscere questa specificità, la spinta verso una parità che, a volte, può significare solo adeguamento ai valori maschili, conduce spesso la donna ad una forma di alienazione da se stessa.

Al primo posto possiamo includere i problemi connessi con la specificità biologica: non è sufficientemente conosciuto il dato secondo cui tra le donne la fascia d’età più esposta al rischio di disturbi psichiatrici è quella compresa tra i 25 e i 34 anni d’età, il periodo in cui la donna vive l’esperienza della maternità e dell’accudimento dei piccoli. Questa è evidentemente una fase della vita della donna in cui l’esercizio del ruolo diventa massimamente gravoso.

Dal punto di vista culturale va ricordato l’enorme svantaggio psicologico derivante dal fatto che per secoli, nelle società patriarcali, le donne sono state bambine senza madri. “Innumerevoli dipinti e sculture del mondo cristiano raffigurano Madonne in atto di confortare e adorare i loro infanti maschi… Il fiero vincolo d’amore, di continuità e di orgoglio fra la pagana Demetra (la Madre Terra) e sua figlia Persefone (la Kore-fanciulla) non esiste fra le donne della mitologia o della cultura cattolica. Non può esistere. Le madri non hanno né terra né denaro da lasciare alle figlie. Il loro lascito è la capitolazione, tramite la frivolezza o il lavoro servile.” (1) In passato le madri sono state condizionate in molti modi a preferire i figli alle figlie, a dimostrarsi nei confronti di questi più amorevoli nell’allevamento. Inoltre esse hanno sempre intuito la necessità di essere più severe nell’insegnare alle figlie ad essere ‘femminili’ affinché esse potessero apprendere come servire per sopravvivere. Questa necessità storica permette di comprendere come le bambine siano state, e spesso lo siano ancora, letteralmente assetate di affetto e di riconoscimento. La personalità dipendente della donna deriva anche dal non essere stata sufficientemente amata dalla madre.

Veniamo, infine, alla specificità connessa con l’appartenenza di genere. “Si va affermando una visione antropologica più ricca e una più ricca idea di uguaglianza: l’essere umano è due, maschio e femmina, l’uguaglianza è valorizzazione di questa diversità”, si legge nel piano nazionale per le pari opportunità fra gli uomini e le donne nel sistema scolastico italiano 1993-1995. Educare alla scoperta del valore di sé e dell’altro nella differenza sessuale significa educare al riconoscimento della propria identità, e se a livello di principio possiamo essere tutti d’accordo, diventa impresa ardua distinguere quali siano le differenze di genere viste come risorse da proteggere e quali siano invece le differenze di ruolo culturalmente apprese e imposte, fonte cioè di alienazione e di stereotipia nel comportamento individuale.

Tra le differenze di genere attualmente in fase di studio, mi sembrano di estremo interesse quelle che prendono in considerazione le difficoltà che le donne incontrano nel mondo del lavoro e il disagio e l’indecisione che esprimono semplicemente per decidersi ad utilizzare apertamente le proprie capacità, prendere decisioni autonome, superare la propria paura di fronte all’aggressività necessaria semplicemente per rendersi visibili. Ad esempio numerose ricerche sul linguaggio indicano che “Spesso le donne trasformano proposizioni dichiarative in interventi interlocutori mediante formule limitative (‘più o meno’, ‘direi’, ‘magari’) e clausole interrogative (‘E’ un bel film, vero?’). Queste espressioni incerte attenuano l’impatto delle affermazioni e segnalano una mancanza di potere e di influenza.” (2)

Secondo Carol Gilligan, nella sua interessantissima ricerca Etica e formazione della personalità, andrebbe rivista la consueta interpretazione secondo cui le donne hanno paura del potere semplicemente perché condizionate ad essere sottomesse. Accanto a questa interpretazione, le sue ricerche suggeriscono una diversa evoluzione del sentimento femminile, orientato verso la costruzione di rapporti di connessione e di interdipendenza, “dove la consapevolezza del legame esistente tra le persone fa nascere il riconoscimento della reciproca responsabilità, la percezione della necessità di rispondere ai bisogni dell’altro” (3). La psicologia della donna, di cui si è ripetutamente riconosciuta la diversità nel suo essere orientata verso i rapporti e l’interdipendenza, non viene vista solo nell’aspetto negativo di paura della perdita dell’appoggio dei propri simili, ma viene vista come un bisogno, probabilmente legato alla sua specificità biologica, che ordina l’esperienza umana in base a priorità diverse da quelle dell’uomo.

La forza di questa posizione risiede nella capacità di prendersi cura degli altri, la sua debolezza nei limiti che impone all’espressione diretta della sua individualità, dei suoi bisogni, delle sue necessità. La preoccupazione per i sentimenti altrui e la paura di essere avversata impone spesso un’acquiescenza che trasforma il suo bisogno di indipendenza in atteggiamenti masochistici i sacrificio di sé e di recriminazione, esercitando così una forma passiva di aggressione poco soddisfacente per la donna e per chi ne è oggetto.

Vediamo ora le tre storie femminili, particolarmente emblematiche a mio avviso di come l’emancipazione femminile senza coscienza della specificità di genere conduca la donna in una strada di infelicità ed autolesionismo.


Sylvia Plath (1932-1963)

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Questa figura femminile in molti modi ci porta al centro del nostro problema, là dove le contraddizioni si accumulano e diventano insopportabili.

Sylvia Plath aveva 30 anni quando si tolse la vita aprendo il rubinetto del gas una mattina d’inverno, in una casa di Londra dove viveva con i suoi due bambini piccoli dopo la separazione dal marito, il poeta Ted Hughes. Pochi giorni prima era uscito il suo romanzo, La campana di vetro, dove ripercorre in modo chiaramente autobiografico la sua giovinezza e il suo primo tentato suicidio. Ancora inedite le poesie di Ariel che l’avrebbero resa celebre, inizialmente rifiutate dalle case editrici perché troppo violente

E’ difficile sintetizzare in poche righe un personaggio così complesso e contraddittorio, lacerato tra momenti di esaltazione e momenti di assoluta, suicida disperazione. La sua vita è la storia della corsa al successo, e insieme all’autodistruzione, di una giovane donna intelligente e ambiziosa, il cui guscio esterno di brillanti capacità conteneva un nucleo di furia inesplicabile.

Il problema della sua vita era conciliare il suo desiderio di essere intelligente e ‘femminile’ nel senso più convenzionale ed esteriore del termine (visibile, ad esempio, nelle lettere alla madre in cui si permetteva di parlare solo di ricette, vestiti, felicità domestica, ecc.) con la fortissima originalità e la grande rabbia che sentiva dentro. Questa contraddittorietà era, naturalmente, ben visibile a quanti la conoscevano di persona: “dapprima la maschera allegra e sorridente che presentava a tutti e poi, dietro di essa, la persona determinata, insistente, ossessiva, impaziente che, se le cose non andavano come voleva, aveva improvvisi attacchi di collera…” (4)

Sylvia voleva essere un personaggio dotato di abbagliante perfezione, ma quando non controllava la sua vulnerabilità ferita, ed era terribilmente vulnerabile, la sua natura vendicativa esplodeva in modo sconvolgente per quanti le erano intorno. Rendendosi conto di quanto fossero distruttive le sue forti gelosie (“Sì, voglio gli elogi del mondo, soldi e amore e ce l’ho con tutti, specialmente con chi conosco o con chi ha avuto un’esperienza simile, e mi ha battuta.”), richiede aiuto medico, anche perché soffre di una fortissima insonnia che la logora ancora di più.

Dal punto di vista professionale Sylvia Plath a 30 anni è una donna di notevole successo, ma non vuole ammettere a se stessa il prezzo che ha pagato per tutto questo. Non riesce ad avere amicizie (viene considerata malevola, gelosa e piena di rabbia, come abbiamo visto); il suo tanto decantato matrimonio letterario con Ted Hughes è fallito, era stato un cattivo investimento: le poesie battute a machina per lui, l’anteporre la carriera professionale di lui alla propria, di tutto questo non le era rimasto nulla. Lui aveva un’altra e lei invece viveva sola con due bambini piccolissimi a cui provvedere, lavorando al limite delle sue forze anche di notte, continuando a combattere la depressione che la divorava da anni.

La sua morte tragica colpisce ancora di più se si pensa a quanto poco tempo avesse concesso a se stessa per maturare.

In questa figura troviamo riunite tutte le tradizionali e ovvie fonti di disagio femminile, cui orgogliosamente Sylvia Plath si opponeva ignorandole:

il fattore di rischio connesso all’età e al ruolo biologico, 30 anni, due bambini piccoli, con una situazione economica assai precaria e lontana dalla famiglia d’origine;
il fattore di rischio connesso al fatto che Sylvia Plath in molti modi era una donna sola, priva di amicizie femminili, in quanto vedeva nelle sue simili solo delle potenziali rivali.
Sylvia Plath, infine, non ha paura della sua ambizione, del suo successo letterario, anzi agisce fin da ragazza assai concretamente in questo senso (spedisce le sue novelle alle riviste, vince borse di studio, ecc.). Però la sua è una carriera al ‘maschile’: ha rimosso i suoi bisogni di coesione e di intimità, pagando un prezzo altissimo di infelicità personale.

Un insieme di contraddizioni che l’hanno spinta nel baratro della disperazione, portandola al suicidio, scelta assai difficile per una donna. Ricordiamo, infatti, che le donne tentano di uccidersi più frequentemente degli uomini, ma circa il 70% dei suicidi riusciti è compiuto dagli uomini.

L’analisi della scrittura conferma le qualità e i limiti della personalità che hanno sostenuto le tensioni evidenziate nella sua biografia.

Dal punto di vista intellettivo, è un’intelligenza che dà la disposizione alla precisione e all’originalità nell’uso del linguaggio, per la combinazione dei segni Chiara, Accurata, Stretta tra lettere, Disuguale metodicamente, Contorta, Staccata. La tendenza alla precisione nel definire il mondo esteriore e interiore (Chiara, Accurata) diventa esigenza di precisione per le capacità originali e inventive (Disuguale metodicamente), basate sul controllo brusco (Contorta, Staccata) e sull’esigenza di un’osservazione attenta e rigorosa nella scelta dei termini (Stretta tra lettere).

La strettezza tra lettere (mancanza di generosità) a livello linguistico diventa un rafforzativo dell’esigenza di precisione tecnica nell’uso del linguaggio. E’ la stessa combinazione, ad esempio, richiesta nelle scienze sperimentali perché denota la dominanza della funzione junghiana di sensazione: l’individuo è attento a tutte le più piccole manifestazioni del mondo sensibile esteriore (è la funzione opposta a quella dell’intuizione, che invece spazia sopra i dati sensibili).

Sylvia Plath, quindi, dispone di un’eccezionale disposizione intellettiva all’originalità e precisione linguistica, quindi attitudine alla poesia (nelle sue componenti di metrica, assonanza-dissonanza dei termini, piena padronanza e differenziazione lessicale, ecc.)

I problemi nascono a livello di sentimento, nella rigidità della personalità che eccede nell’imposizione e nell’unilateralità delle vedute. La scrittura è Dritta, indice della piena centratura della personalità su se stessa, ma tutte quelle doti che la rendono precisa e originale nella lingua, a livello umano non funzionano, prima di tutto nei confronti di se stessa e successivamente neanche nei rapporti con gli altri.

Il forte autocontrollo, l’esigenza di precisione, l’originalità, la strettezza nel giudizio, l’attenzione alle esteriorità, l’inquietudine interiore per eccesso di autocontrollo, la permalosità, rappresentano, singolarmente e prese nel loro insieme, delle mine vaganti nella personalità, che possono esplodere a seguito della più lieve sollecitazione.

E’ un soggetto orgoglioso, che si prendeva tremendamente sul serio (Accurata, Stretta tra lettere danno la permalosità dovuta a poca larghezza di vedute).

Il sentimento è esigente, anche perché è molto originale, ma stenta a manifestarsi. Inoltre è portato ad analizzare tutto, quello che dà e quello che riceve (Staccata) con una specie di rigore fiscale, accentuato anche dalla presenza del segno Contorta (controllo)

Il segno Larga tra parole sottomedia non le permette di ragionare un po’ di più sulla sua situazione per arrivare ad una forma di autocontrollo dovuto alla ponderazione.Esplode sempre molto prima.

La scrittura conferma le sue grandi doti di scrittrice, ma anche la sua difficoltà di essere un po’ più indulgente con se stessa e con gli altri.


Camille Claudel (1864-1943)

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Camille Claudel, scultrice e sorella del poeta Paul, nata e cresciuta nella provincia francese, approda non ancora ventenne a Parigi con tutta la famiglia. Molto presto incontra Auguste Rodin, quarantenne e allora agli inizi di una carriera che sarà strepitosa, ne diventa l’allieva e, a un momento imprecisato, l’amante. Questo sodalizio affettivo e artistico dura diversi anni. Poi, nel 1893, Camille sceglie l’indipendenza (ha 29 anni), abbandona l’atelier di Rodin e intraprende una sua ricerca, incurante dei successi mondani, nell’oscurità e nella povertà. Ma in questa solitudine sempre più ostinatamente cercata Camille Claudel inizia a dare i primi segni di squilibrio: vede crescere la fama di Rodin e si sente derubata delle sue idee. A partire dal 1905 (ha 40 anni circa) queste ossessioni, queste angosce si trasformano in idee fisse, poi in psicosi. Rodin diventa nella fantasia di Camille la mente di un complotto che mira ad annientarla. La sua crisi di identità, che non riesce a risolvere, la isola sempre di più. Dal 1905 si mette a distruggere le sue opere, nel 1906 cessa ogni attività artistica. Nel 1913, all’età di 48 anni, su richiesta del fratello Paul, viene internata in un ospedale per malati di mente, di dove non uscirà che il giorno della sua morte, avvenuta trent’anni dopo. La sua malattia mentale, la catastrofe radicale della sua esistenza, rimane un mistero ampiamente inesplorato. Camille Claudel in manicomio non era né violenta né aggressiva; col passare degli anni diventò sempre più tranquilla e chiedeva insistentemente di tornare a casa. Ma per il fratello famoso sarebbe stata un peso e per la madre pure (“tenetevela, ve ne supplico … ha tutti i vizi, non voglio rivederla, ci ha fatto troppo male”, così scrive la madre al direttore del manicomio senza riuscire a perdonarle le sue scelte anticonformiste). Di questa sua esperienza Camille scrive in una lettera, 8 anni prima di morire: “Sono precipitata in un baratro … Del sogno che fu la mia vita, questo è l’incubo” (lettera a E. Blòt, 1935).

Alcuni biografi, per rendere la storia più comprensibile dal punto di vista del tragico destino di lei, vedono la sua carriera distrutta dalla viltà congiunta di due uomini: Rodin, il suo amante che l’ha sfruttata, e dello scrittore Paul Claudel, suo fratello, che l’ha fatta rinchiudere. Non credo sia possibile, tuttavia, senza alterare ampiamente i fatti, imputare a questi due uomini il suo crollo.

Da dove venivano le sue tendenze autodistruttive?

Se noi interroghiamo la grafologia per avere anche solo un vago indizio su che cosa possa essere successo per spiegare questa catastrofe a livello di personalità, bisogna riconoscere che qui non troveremo alcuna risposta diretta, perché non vi sono particolari squilibri nella grafia di Camille Claudel.

La scrittura, al contrario, presenta l’equilibrio della triplice larghezza, vale a dire il fondamento delle qualità che costituiscono l’autocontrollo dovuto a ponderazione, oltre che indice di facoltà ben sostenute a livello di profondità e di forza dell’intelligenza. Le sue facoltà intellettive, inoltre, vengono accentuate dalla presenza dei segni Angoli A (reattività), Mantiene il Rigo (fermezza), Attaccata (continuità), in quanto denotano la capacità di attivazione e di concretizzazione delle tendenze.

Il Disuguale metodico è presente, anche se in grado non elevatissimo, ma in combinazione con il segno Fluida; quindi indica la presenza di alcuni concetti originali che poi tendono a ripetersi. Diventa feconda nelle sue opere, ma non tanto originale.

La personalità, inoltre, è portata all’assimilazione per la presenza del segno Pendente, che rivela anche l’intensità del sentimento che tende ad affezionarsi fortemente e ad avere bisogno di un affetto intimo esclusivo. Qui troviamo degli indici un po’ contraddittori tra la contenutezza grafica complessiva e la pendenza grafica: da una parte il suo bisogno di essenzialità, di consumare in se stessa le impressioni che riceve, dall’altra la spinta all’affettività di abbandono. Il suo sentimento profondo nella sostanza (triplice larghezza), sicuro della forza della sua posizione (cenni di Ardita), portato anche alla reattività nella sua sensibilità (Angoli A) mal si adattava al ruolo che si era scelto: quello di giovane amante di un uomo sposato. La ponderazione è forte, la serietà del carattere pure e lo è anche l’affettività e questo rende di fatto impossibile accettare un ruolo di compartecipazione in campo affettivo. Se lo ha fatto, si è imposta un atteggiamento che non le apparteneva. Qui, inoltre, c’è una differenza di genere che andrebbe approfondita. Mentre mi sembra che a livello maschile venga retta con minori costi la duplice relazione moglie-amante, a livello femminile l’esperienza diventa fonte di maggiore sofferenza, per il diverso orientamento del sentimento maschile e femminile (è diversa l’enfasi posta nella polarità ‘oggettivizzazione/personalizzazione’ del partner sessuale).

Camille Claudel conosce le sue doti, la sua bravura, è una donna di grande sostanza, con qualche tratto di arditezza che forse lei stessa ha sopravvalutato, perché la struttura di fondo della personalità è basata sulla ponderazione (Largo tra parole) anche se non sempre lucida (larghezze non omogenee, alcuni ricci della confusione). Il segno Pendente è l’unico elemento che potrebbe averla portata fuori strada, non perché il segno sia così esagerato, ma perché va a rafforzare un carattere già molto determinato: affettivamente voglio questo e lo avrò. Lei apparentemente ha tutte le carte vincenti in mano con Rodin, è bella, giovane, intelligente, indispensabile a livello professionale da quanto è brava, ma nonostante questo lui non lascia la moglie per lei e perciò Camille deve riconoscere – a livello affettivo – di avere perso, lui aveva bisogno di entrambe. E per il segno Pendente ammettere questo non è certo facile, in quanto deve contrastare la propria tendenza primaria, che è quella di riversare il suo sentimento affettivo per ricevere affettività in modo esclusivo.

Però riconosciamo che in questo schema c’è qualcosa che va al di là delle caratteristiche di personalità e subentrano modalità comportamentali e reattive tipicamente femminili: la caduta nel pozzo nero dell’autodistruzione depressiva. La depressione diventa una modalità espressiva privilegiata del disagio femminile e penalizza tanto le donne tradizionali quanto, come abbiamo visto, il desiderio e il coraggio di essere una donna diversa.


Virginia Woolf (1882-1941)

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In che modo poteva acquietare la mente simile “a un alveare di parole che non si posano”, chiedeva Virginia a Leonard Woolf che, per tutta risposta, si innamorò di lei e la volle sposare. E lei, a 30 anni, dopo qualche riflessione sul suo corpo muto come un sasso e sulla sua inettitudine domestica, accettò di chiamarsi Virginia Woolf. Questo matrimonio rappresentò per lei uno scudo e un approdo: il marito cercò di proteggerla in tutti i modi dall’assalto della malattia mentale e la rassicurava sulla sua produzione letteraria. Ma ancora peggiore dell’estenuante fatica dello scrivere, era per lei l’attesa della pubblicazione, quando arrivavano le reazioni dei critici e del pubblico. Al termine del suo romanzo “La crociera”, ad esempio, il suo equilibrio si infranse e per lunghi mesi rimase chiusa in una clinica, sorvegliata a vista.

Nella biografia del nipote Quentin Bell è narrato il primo tentativo di suicidio appena sposata, le tesissime amicizie, la repulsione sessuale e le crisi depressive, ma anche l’affetto per il marito, il piacere della conversazione, l’ansia felice del lavoro (quando erano lontani gli inferni della psicosi).

Virginia Woolf non sapeva essere un personaggio celebre, per quella sua fragilità che il successo non aveva sanato e per la sua ipersensibilità che le impediva di abituarsi alla normale durezza dei rapporti sociali. Geniale anticipatrice di alcune tematiche femministe, rivendicò la diversità del sentimento femminile analizzando con la sua mente lucida la forzatura delle donne dentro il sistema patriarcale.

Nel 1941, quando la malattia mentale si ripresentò in tutto il suo orrore, Virginia, che ne conosceva a memoria i sintomi (la stretta alle tempie, le voci che la chiamavano, l’insonnia, il disgusto per il cibo) sente di non farcela più e decide di incontrare la morte annegandosi.

“I begin to hear voices, I can’t concentrate”, scrive Virginia Woolf nella sua ultima lettera, sopra riportata, esprimendo l’ insanabile, ormai insopportabile contraddizione tra il suo bisogno di essere lucida e concentrata nel pensiero, il fatto altrettanto tangibile che alcuni aspetti del suo Io partecipavano di altre strane dimensioni, e l’impossibilità di accettare entrambi nella propria vita. Eppure la sua scrittura rende ragione di questa complessità psicologica, di questi due aspetti apparentemente inconciliabili e opposti.

Da una parte le sue potenti facoltà critiche, il suo pensiero profondo, penetrante e incredibilmente originale: la scrittura con la triplice larghezza equilibrata sopra media con una spiccata accentuazione nella larghezza tra parole, unita ad una altrettanto potente originalità concettuale (Disuguale metodico molto elevato, almeno 8/10). L’intelligenza, inoltre, è dominata da uno slancio e da una passione che la mente razionale fatica a contenere (Slanciata, Dinamica, Scattante). Per cui la sua attività mentale procede intensamente, attraverso l’approfondimento di concetti sempre più originali e stringati (Parca), in una forma di elaborazione critica continua e incalzante, sollecitata dall’impazienza e dal nervosismo se si deve soffermare troppo su particolari concreti. L’oscurità grafica, frutto della velocità (Slanciata) e la critica potente (Larga tra parole) la portano a forme di incontentabilità prima di tutto nei confronti di se stessa: non è mai soddisfatta di quello che ha raggiunto, perché la potenza del suo intelletto e della sua critica è di molto superiore a quanto riesce ad esprimere (Oscura). L’incontentabilità crea la fatica di rielaborare, perché se il concetto è chiarissimo, non altrettanto lo sono le parole che lei cerca per esprimerlo. La scrittura manca di calma, quindi viene meno la pazienza nel correggere, nel rielaborare, nell’indagare. Quando è in preda alla passione dell’intuizione originale, procede speditamente, quindi senza dubbi sul suo operato. Ma in lei le facoltà sono talmente intense, che necessariamente la rendono soggetta a forme di stanchezza, conseguenti all’eccessivo sfruttamento delle sue potenti risorse. In questi momenti viene meno, ovviamente, il sostegno del calore dell’entusiasmo e in corrispondenza aumenta il potere dell’autocritica, che sostiene gli stati d’animo di indecisione, di difficoltà nel concludere e di insicurezza su ciò che ha fatto. Questo solo quando è stanca, perché di norma conosce benissimo il potere del suo pensiero e delle sue intuizioni.

Virginia Woolf, grafologicamente, per la presenza del segno Larga tra parole accentuato, appare più portata alla saggistica che al romanzo. Una saggista, però, che non ha la pazienza di leggere prima tutto quello che è stato scritto da altri, per la forza e l’immediatezza del suo pensiero concettuale profondamente originale (Disuguale metodicamente, Larga tra parole, Slanciata): sente la forze delle sue idee e a queste si sforza di dare espressione nel modo più essenziale e incisivo possibile. A dare forza all’originalità c’è anche un buon livello di angolosità, che radica l’individuo nelle sue scelte.

E che dire del mondo turbato delle sue voci interiori, di cui aveva un vero terrore? Sembra che gli strumenti interpretativi psicologici attuali siano più aperti di quelli in uso quando era viva Virginia Woolf. Mentre allora sembrava impossibile che l’intelligenza razionale e la critica potessero coesistere accanto a fenomeni come quelli che lei provava, per cui necessariamente uno dei due doveva essere definito sbagliato, ora i modelli teorici di riferimento sono molto più elastici su questo tema. Lo stesso apparire di scuole di psicologia ‘transpersonale’ confermano la nuova visione dell’io immerso in un mondo molto più vasto di quello sospettabile dalla vecchia psicologia. Per questo il fatto che Virginia Woolf sentisse delle ‘voci’ non è necessariamente leggibile come alienazione, ma anche come personalità aperta a dimensioni psichiche appunto transpersonali. E grafologicamente questa è una prospettiva pienamente confermata dalle caratteristiche di personalità che lei possedeva. Infatti la sua scrittura rivela non solo eccezionali qualità mentali, ma anche eccezionali qualità e aperture del suo sentimento, profondamente originale, sensibile e intuitivo. A quali dimensioni psichiche tutto questo la collegava? Lei ha realmente delle qualità della ‘intuitiva visionaria’, della ‘veggente’ (Disuguale metodicamente, Slanciata, Scattante), che tuttavia rinnegava perché non si accordavano con il personaggio che lei aveva scelto di essere e che gli altri intorno a lei confermavano: una donna estremamente intelligente e razionale, e non altro (anzi questo per molti era già troppo per una donna!).

La scrittura, non a caso, oltre alle doti indicate, presenta una spiccata alternanza di pressione grafica, con vari tratti di Filiforme, quindi un aumento della sensibilità del sentimento. Notiamo, inoltre, che il segno Apertura a capo A-O compare in grado notevole e anche questo potenzia ancora di più la reattività del suo sentimento. La disposizione all’intenerimento sessuale (Apertura capo A-O), quindi la capacità di cogliere il gioco sottile dell’attrazione sessuale, congiunta con la forza del carattere e della mente che si impone di sviscerare le ragioni, il diritto di essere e le modalità di tale attrazione basandosi sull’analisi delle differenze di genere, sono le componenti della personalità che hanno reso possibile la sua geniale e anticipatrice analisi della situazione delle donne nel sistema patriarcale, come vissuto interiore e come rivendicazione della specificità del sentimento femminile.

Perciò lei si è trovata a gestire un enorme patrimonio di qualità dell’intelligenza e del sentimento, e non stupisce che questo l’abbia stremata. Inoltre, aveva paura di tutto quello che rappresentava il suo lato oscuro di ‘sensitiva’, che quindi veniva accettato solo parzialmente e che perciò, in certi periodi, si imponeva sotto forma di psicosi contro la sua volontà. In altri periodi, invece, come scrittrice si sentiva profondamente collegata e nutrita dalla sua ispirazione.

Anche il rapporto difficile con la sessualità è da rivedere in un contesto più differenziato: le difficoltà nascevano non perché provava poco, ma provava troppo (Apertura capo A-O), in modo passionale (Scattante), esigente (Disuguale metodicamente), difficile, poco docile, poco acquiescente (Aste rette, Aste a sinistra, Larga tra parole). Non collegabile, quindi, ad una freddezza del sentimento, ma alla difficoltà di concedere a se stessa di lasciarsi andare al lato non cerebrale della vita. E questo lato, come abbiamo viso, si prendeva le sue rivincite. Dove e come, nella sua vita, Virginia Woolf si è concessa di esprimersi come donna passionale? La sua personalità era rivestita e contenuta e protetta dalla sua razionalità e dalla sua capacità di guardare e di voler vedere la realtà per quella che è, senza veli.

Virginia Woolf ottenne in vita grandi riconoscimenti come scrittrice di romanzi e critica letteraria, ma nessun successo ottenuto ha costituito per lei un punto fermo, una garanzia; con la sua fortissima sensibilità dava voce a quella condizione di sradicamento femminile che nel pensiero della differenza ha trovato di recente significazione e analisi. E’ la prima donna ad aver compreso ed analizzato in modo tanto lucido le inibizioni che bloccano le donne nell’esprimersi pubblicamente e l’impossibilità o le difficoltà, per molte di loro, di uscire e di svelarsi in un mondo che non è il loro, ma è un mondo improntato su valori diversi, cioè maschili. A questo proposito ha scritto: “Dietro di noi sta il sistema patriarcale; le pareti domestiche, con il loro nulla, la loro immoralità, la loro ipocrisia, il loro servilismo. Dinnanzi a noi si apre il mondo della vita pubblica, con la sua ossessività, la sua invidia, la sua aggressività, la sua avidità.” (5)

Se una donna con le risorse intellettuali, temperamentali e volitive di Virginia Woolf trovava impossibile adeguarsi ai valori maschili dominanti, che dovremmo dire a tutte le donne che si gettano in carriere che sono ancora, sotto moltissimi aspetti, all’insegna di valori maschili, presentando scritture che denotano chiaramente la predominanza del sentimento femminile, come lo definisce C. Gilligan, orientato verso la cooperazione e la connessione (caratterizzate, cioè, dal segno sostanziale Curva)?

La conoscenza della specificità del sentimento femminile e delle conseguenti problematiche femminili di integrazione nella società è la chiave che ci permette di comprendere le mille forme di depressione, le anoressie, le bulimie, le ossessioni che aumentano in Occidente in conseguenza dell’aumentare della libertà femminile.

Come si chiedeva Virginia Woolf a proposito dell’emancipazione femminile: “dove ci conduce il corteo degli uomini colti?” e soprattutto “abbiamo voglia di unirci a quel corteo? A quali condizioni ci uniremo ad esso?” (6)


Bibliografia

  1. Phyllis Chesler, Le donne e la pazzia, Einaudi Editore, Torino 1977, p. 19.
  2. Myra e David Sadker, Sessismo a scuola negli anni ottanta, in Psicologia Contemporanea, Giunti Editore, genn/febbr. 1986, p. 8/11.
  3. Carol Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli Editore, Milano 1987, p. 38.
  4. Anne Stevenson, Vita di Sylvia Plath, Serra e Riva Editori, Milano 1990, p. 8.
  5. Virginia Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli Editore, Milano 1992, p. 106.
  6. op. cit., p. 92.

I Grandi dalla scrittura

Presentare una sezione grafologica caratterizzata da un titolo così generico richiede qualche precisazione. Innanzitutto chi sono i grandi: grandi scienziati, grandi artisti, grandi condottieri, caratterizzati veramente da grande ingegno o soltanto da una grande ambizione e grandi capacità di intrigo? Già questo primo interrogativo richiederebbe una lunga serie di considerazioni che esulano dallo scopo della sezione. In secondo luogo, ci si chiede se sia lecito partire dal presupposto, apparentemente ovvio, che una persona sia diventata famosa a causa delle eccezionali capacità che possedeva, che spingevano in senso finalistico in una data direzione. Grafologicamente questo non risulta sempre vero. Inoltre questa forma di riduzionismo psicologico a volte risulta troppo pedante e anche irritante nello sforzo di voler spiegare in dettaglio come e perché sia successo tutto, senza riuscire di fatto a spiegare neanche in minima parte l’altezza e la complessità delle situazioni a cui certi personaggi giungono. Lo psicologo americano J. Hillman ha riproposto recentemente il concetto di ‘codice dell’anima’, vale a dire l’idea “che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.” (Il codice dell’anima, Adelphi Ed., p.21) Ciò che siamo, in questa prospettiva, non è il frutto delle circostanze, dell’ambiente, del carattere che abbiamo ereditato, ma questi sono solo strumenti che sollecitano la percezione dell’unicità del nostro destino e contribuiscono a realizzarlo. In termini grafologici, la scrittura non spiega il nostro destino e spiega solo in parte la nostra storia, in quanto la personalità costituisce uno dei mezzi attraverso i quali il destino individuale si compie. In questo senso l’anima ci sceglie per vivere la sua vita, per fare quella determinata esperienza della realtà, attraverso un certo corpo e una certa personalità che sono in grado di reggere quella esperienza. Per questo un avventuriero che scopre un continente sconosciuto non può avere la stessa struttura di personalità che consente a un altro di passare anni ad affrescare una cappella: al di là di quello che può essere il potenziale intellettivo di entrambi, uno ha bisogno di audacia, irrequietezza e intraprendenza per muoversi in spazi quasi infiniti e l’altro di dominio totale delle sue energie per portare a termine un compito in condizioni quasi di immobilità fisica. Ma queste tendenze sono strumenti, non fini, in quanto la personalità non può spiegare se stessa, ma fa appello ad altro che resta al di fuori di sé: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi e, guarda caso, si ha proprio quella struttura di personalità che ci consente di vivere quelle, e solo quelle, determinate esperienze. Nel raccontare le personalità dei grandi ci limiteremo, pertanto, a prendere atto della struttura della psiche attraverso l’evidenziazione dei principali segni grafologici, e soprattutto di quelli che hanno ‘segnato’ in modo vistoso, per la loro presenza, o la loro assenza, o il loro squilibrio, l’individuo in esame. Ma mentre esaminiamo quello che l’individuo mostra di se stesso attraverso la sua struttura di personalità, non si può dimenticare ciò che non c’è e non ci potrà mai essere nella scrittura: l’anima che ha dato necessità e direzione a quella esistenza.